Bianco e nero. Una passione tramandata di sangue in sangue. Richard Avedon e Michael Avedon hanno molto di più in comune nella fotografia: scrutano con un occhio che penetra l’anima.
Mettere a confronto nonno e nipote è una partita persa: entrambi cercano la verità delle persone. I ritratti si confondono. I contrasti, le linee e le forme, ma anche le rughe, gli occhi e le espressioni sono i soggetti delle loro foto.
Richard Avedon per un momento della sua carriera aveva scelto la narrazione fotografica e il movimento, il nipote Richard sembra preferire la staticità dei ritratti. Immagini che parlano e che colgono l’essenza vitale della persona fotografata.
La follia è il punto di partenza per Michael e fotografare la verità della pazzia è uno dei doni più potenti che l’arte possa fare. Gli occhi di un folle sono la sua bocca: ti parleranno di profondi oceani, di sofferenze, di allegria, del loro viaggio tra la luna e le stelle, perché dentro di loro c’è l’infinito. Questo è stato l’insegnamento più grande che Richard Avedon possa aver trasmesso a suo nipote quando gli parlava della fotografia e gli confessava di cercare persone che soffrivano, per trovare qualcosa di lui in quelle immagini.
Michael Avedon, a soli 25 anni, può vantare di aver trovato l’essenza dell’arte in se stesso. Richard Avedon invece la trovò durante la seconda guerra mondiale, quando venne arruolato come ufficiale fotografo nella marina mercantile ed ebbe l’incarico di scattare le fototessere alle reclute. Fu così che nacque lo sfondo bianco e indeterminato delle sue fotografie.
Le linee morbide, il chiaroscuro, la fluidità e le ombre sono gli elementi che li rendono unici nel loro genere. Ma i dettagli fanno la differenza: tirare fuori la sostanza dell’anima, l’energia vitale e la sofferenza dello spirito è pura magia.
Entrambi contemporanei ed entrambi portatori di verità. Visionari delle loro epoche e ricercatori dell’inclinazione dell’anima. Richard Avedon ha tramandato un dono segreto al nipote. E a noi, non resta che leggere attraverso la luce riflessa nelle fotografia di Michael.
Martina D’Ammassa